Cos'è?


Voce alla Poesia, voce ai poeti, specie a quelli meno conosciuti.

Voce di terra, di vento e di dialetto .

Voce di uomini e donne terribili.

Voce a volte anche mia..manina piccola che cerca la tua.

martedì 21 dicembre 2010

Can - Ernesto Calzavara


Can, no te si mio.
Te ga n’altro paron.
Te si magro e straco
ma un ocio bon me par.
Te vardo parché si, can, te me piasi.
Te va de qua de là, te nasi
e po’ te lassi star.
Te co to trotéto
che la strada no pesa. Sito sito.
Dove? No se sa.

Can, se te digo tuto, me scóltitu?
Senti: son vegnù qua
ne la casa granda dei veci
che xe mort, solo.
Ti, te si entrà dal me restel za verto
in giardin par vardar.
Cossa vardar? Un omo griso
tra do ortighe che fiorisse e che more
ogni ano, can.

Can ti te conossi el to paron
e col te bate te pianzi e te ridi
a la to moda dopo.
Mi so gche go paron,
ma chi ch’el sia no so. No l’ho mai visto
e col me bate bastemo.

Eco qua. Son tornà ne la me càmara,
vècia a copar i mussati sui muri
co’ la savata, ogni sera.
Son tanto stufo, can.
No ghe ne posso più de strussiar.
Ti come mi. E pur te speri, te vivi
e la to ànema va drio le to gambe
da canton a canton
su la strada ogni dì.

Can pien de pulzi, de forza, de fame,
can tuto curame.

Can grando can serio can mai contento,
can pien de tormento.

Can desparà can superbo e curioso
can capriçioso.

Can co’ le cagne ogni tanto; can bon
can savaton.

Can moscador, pien de farfale in testa,
can da festa

e da lavoro. Can senza partìo,
can finìo.

Can de scuor,can cazzadór, can foresto
ma de sèsto.

Can che dorme, rustego; can maton
sempre de sbrindolon.

Can povero e sior, tuto el dì a çercar
quel che no te pol trovar.

Can drito e s-cièto de drento e de fora,
can de la malora.
Tuto can.
Vien qua, Dame la sata, can.
E po’ scampa, scampa, se no te bato
(mi, mi , me bato. . .). Frusta via, can.


lunedì 20 dicembre 2010

Poeta - Romano Pascutto


Esser poeta l'è gnent
difiçie l'è star dret
co te va massa alt
co te va massa bass
come 'na bala de tocai
e l'è 'na bala de anema




sabato 18 dicembre 2010

Alla beatrice - Giovanni Giudici



Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali


Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla


Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
Dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra


Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice


Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale


Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.



giovedì 16 dicembre 2010

Campidoglio - Jorge Eduardo Eielson.


Lei non sa quanto pesa
un cuore solitario
ci sono notti in cui la lana scura
la lana tiepida che mi protegge
arriva fino in cielo
e mentre dormo mentre respiro
mentre singhiozzo
mi si versa il latte bollente
sul viso
e allora una maschera magnifica
col sorriso del re di spade
copre il mio pianto
e tutto questo non è niente ancora
lei non mi crederà
ma lottare lottare lottare
tutte le notti con una tigre
fino a trasformarla in magnolia
e svegliarsi
svegliarsi ancora e non sentirsi
stanco e rifare ancora
striscia dopo striscia la stessa odiata tigre
senza dimenticare gli occhi gli intestini
né l’alito fetido
tutto questo per me
è molto più facile molto più leggero
mi creda
che non trascinare ogni giorno
il peso di un cuore desolato


mercoledì 15 dicembre 2010

Non guardo di fino - Agostino Colombo



Sono uno che non guarda di fino, non un pignolo; non
uno spaccapelo,
a me basta camminare accanto al carro, sentire lo zoccolo
quieto,
un toc dopo l’altro; e andare: a briglia sciolta
mi scelgono le strade, come per la necessità del caso
e se sono tanti gli imbocchi uno solo è lo sbocco: un prato
dove ti troverò distesa e candida. Hai un vestito tutto ricamato
a fiori
e sei giovanissima, come me del resto che mi stendo accanto
tra le labbra uno stelo e la camicia bianca e pulita
e guardiamo tutti e due il cielo che non ha nuvole
e posso toccarti come fossimo in vita; invece siamo eterni
e vediamo ogni specie di fiore e di pianta e di animale
e il cavallo che tanto ha faticato è lì anche lui e quieto.


martedì 14 dicembre 2010

Fuori orario


Mi presenterò dinanzi alla tua torre di cuscini,

mi dirai di chinare la testa e riposare, mi dirai

di ciò che scalda, di ciò che fa addormentare,

mi darai dell'oppio, pulito con del miele.

Come potrò fuggire?

Chiuderò le mascelle, sentirò la lingua stringersi,

lei che del canto è la forma, mi dovrà pur aiutare.

Mi costringerò in pensieri di more, di viole mammole,

di rosa canina, rosa spina piccina piccina.

E mi riprenderai!

Con più violenza e con decisione, il mio respiro

in apnea spontanea saprai gelare.


Il biglietto lo faccio due giorni prima, mi presento in anticipo, goffo nella scusa di una sigaretta attendo attendo..chiudo le ginocchia al petto, le cosce a stringermi in basso, fino a quasi dolore..labbra chiuse, vene strette, occhi spilli, nervi veri di verve Katmandù.

Andrew Motion - Sul tavolo




Ci terrei a precisare che ho comprato
questa tovaglia
con il suo semplice disegno ripetitivo
di fiori viola scuro non menzionati
da alcun botanico
perché mi ricorda quel vestito stampato
che indossavi
l’estate che ci siamo conosciuti (un vestito
– hai sempre sostenuto –
che non ti ho mai detto che mi piaceva).
Be’, mi piaceva, sai. Mi piaceva.
Mi piaceva un sacco, che ci fossi tu dentro
oppure no.

Come è potuto uscirsene così in silenzio
dalla nostra vita?
Detesto (proprio detesto) l’idea di qualche
altro sedere
che faccia svolazzare a sinistra e a destra
quelle pesanti corolle.
Detesto ancor più immaginarmelo sgretolarsi
in una discarica
o fatto a brandelli – un pezzo qui che pulisce
un’astina dell’olio
un pezzo là intorno a una crepa in un tubo
di piombo.


È passato tanto tempo ormai, amore mio,
tanto tempo,
ma stanotte proprio come la nostra prima
notte sono qua,
la testa leggera tra le mani e il bicchiere
pieno,
che fisso i grossi petali sonnolenti fino
a quando si mettono in moto,
amandoli ma con il desiderio di sollevarli,
di schiuderli,
persino di farli a pezzi, se questo è quanto
ci vuole per arrivare
alla tua bellissima pelle, desiderosa,
calda, candida come la luna.